I mutamenti della città nelle cronache di un architetto
Tredici anni di cronache d’architettura, a raccontare edifici pubblici e privati, spazi urbani e arredi di negozi. Paolo Bolzani, architetto noto in città anche per aver curato, tra le altre cose, l’allestimento del museo NatuRa a Sant’Alberto e Tamo a San Niccolò, ha raccolto in un volume gli articoli scritti prima, fino al 2004, per Ravenna&Dintorni e poi, dal 2005 a oggi per le riviste, di cui è anche consulente di redazione, TrovaCasa e TrovaCasa Premium (tutte testate edite da Reclam). La presentazione pubblica del volume svoltasi giovedì 31 maggio alle 18.30 nelle cantina di palazzo Rava (via Roma 117). Noi ne abbiamo approfittato per fargli qualche domanda.
Paolo, nel raccogliere e scegliere i pezzi per il libro, avrai risfogliato l’evoluzione recente della città, quali tendenze hai rilevato?
«In effetti tredici anni sono un lasso di tempo sufficientemente lungo per mappare la città che cambia. Ho cominciato a scrivere prima del Giubileo quando molte opere erano in cantiere proprio per il 2000 e così per esempio abbiamo raccontato il grande intervento di piazza del Popolo. E la copertura della cupola di Teodorico per la ripulitura e che oggi, a dieci anni, è tornata praticamente nelle condizioni precedenti gli interventi. Poi si vedono le mode che cambiano, per esempio a fine anni novanta nei negozi andava un genere country con legno chiaro, elementi di verde bosco, mentre oggi prevale l’astrazione del grigio».
Hai raccontato anche molte case private. Come è cambiato il gusto dei ravennati?
«Direi che prevalgono due tendenze, a parte un filone strettamente legato alla tradizione: una molto legata al vintage e all’antiquariato, una invece al minimalismo, talvolta estremo. Molto dipende anche dalla storia della famiglia che abita la casa, quando si tratta di una storia lunga che coinvolge più generazioni c’è spesso una tendenza quasi alla musealizzazione, all’esposizione di un ipervissuto. In generale, quello che viene fuori è una inaspettata qualità diffusa».
In questi anni, chi dispone di possibilità economiche sceglie di costruirsi la villa fuori città o c’è una tendenza al recupero, magari in centro o nella prima periferia?
«In effetti la seconda scelta sembra prevalere. E questo è dovuto a più fattori, da un lato alle nuove normative che limitano il consumo di territorio, ma anche al fatto che, paradossalmente, l’edificio storico per alcuni offre più garanzie sulla qualità dell’edificio rispetto all’offerta immobiliare nuova, che non sempre, in questi anni, ha corrisposto alle aspettative. Poi c’è un elemento identitario: la “marmellata” di case e casette nella periferia con tanti uffici e negozi sfitti, come dice Boeri, assomiglia più a un’idea di anticittà che di città. E così, soprattutto i quarantenni e cinquantenni preferiscono ristrutturare e spesso privilegiano il centro storico».
Sul fronte dei lavori pubblici, invece, sembra che tutto vada terribilmente a rilento, in tredici anni forse non è successo granché…
«Il problema è che spesso la legge che impone di affidare i lavori al massimo ribasso fa sì che gli appalti vadano a ditte che poi non sono in grado di reggere fino al termine dei lavori. E questo inevitabilmente allunga i tempi. Il caso del Museo di Classe è lì a dimostrarlo…»
Ecco, un tuo parere su quanto si è potuto vedere. Ti piace la struttura progettata da Vittorini?
«Si tratta di un impianto dall’effetto basilicale che però, è vero, crea una densificazione non di carattere funzionale e sì, di fatto riduce gli spazi a disposizione. Si parla tanto di merito, poi però è difficile capire per quale motivo a suo tempo si sia affidato a un urbanista, quindi a un esperto di pianificazione, che aveva già redatto vari Prg, la progettazione di un museo».
La nuova piazza Kennedy?
«Per la verità, a livello di coerenza metodologica, senza entrare nel merito della proposta, non capisco perché si sia fatto un concorso di idee e poi non si sia seguito il progetto del vincitore. Personalmente non ho partecipato con il mio studio perché non si poteva scavare più di 50 cm e io invece lì, da sempre, avrei voluto un grande cantiere con studenti, archeologi e ricercatori a scavare una zona che potrebbe essere ricca di reperti».
E gli archi?
«Confesso che non mi convincono, preferisco piuttosto gli elementi di Leonardo Rossi che collegano piazza Medaglie d’oro al parco Mani fiorite».
Veniamo alla vera sfida urbanistica della città: la darsena. Ti convince il processo di partecipazione?
«Mi convince se viene gestito da un regista in grado poi di scegliere, mettere insieme e prendere le decisioni finali, altrimenti rischia di essere dispersivo. Certo, ci vuole un architetto che non pretenda poi di disegnare tutto lui, quindi non un archistar».
Il masterplan Boeri?
«Era interessante, ma secondo me ha due punti deboli. Il primo è che non prevede la valorizzazione dell’archeologia industriale presente che invece ha molti aspetti positivi: un forte elemento identitario e simbolico, una grande duttilità per i pochi vincoli, spazi in genere molti ampi. Secondariamente mi sembra che non abbia tenuto sufficientemente conto della suddivisione dei lotti tra i privati, per esempio prevedeva il verde in grossi comparti senza immaginarne a sufficienza una compensazione. Le due torri erano belle, ma se c’è una cosa che ho imparato è che l’architettura si può giudicare solo una volta costruita, non sul disegno».
E subito si pensa alla torre di Zucchi…
«Cino Zucchi è un grande architetto e l’idea alla base della torre era davvero interessante. Però è vero che la finitura dell’edificio in Darsena è un po’ debole, non penso per una sua scelta. Preferisco l’intervento della nuova sede dell’Autorità portuale che, guarda caso, corrisponde quasi completamente al progetto che aveva vinto il concorso…».
Le immagini della serata di presentazione del libro “Cronache e Racconti di Architettura”
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